La paura di decidere
Decidere è una libertà, ma anche un compito che può diventar difficile fino a trasformarsi in un peso insostenibile.
Più l’umanità si è evoluta, e più complessa è diventata la realtà con cui l’uomo entra in relazione, più faticoso è scegliere. Man mano che la conoscenza e le capacità operative sono aumentate, permettendoci di risolvere problemi e controllare meglio la realtà, più i nostri dilemmi si sono complicati.
La paura di sbagliare è probabilmente la più ricorrente. Per quanto possa sembrare sconcertante, può soffrire di più chi deve decidere tra due partner rispetto a chi deve assumersi la responsabilità della vita o della morte. Quest’ultimo di solito è bene addestrato alla valutazione delle opzioni e al controllo delle proprie emozioni.
Pertanto, ciò che rende la paura di prendere una decisione sbagliata una vera e propria tortura non è la situazione oggettiva, ma la percezione da parte di chi deve decidere. Questa percezione dipende dalle sue caratteristiche personali e capacità acquisite.
I sintomi che la persona può manifestare variano. Si va da una costante indecisione, tempi prolungati nell’agire, ansia elevata, angoscia eccessiva in attesa degli effetti delle scelte compiute a veri e propri blocchi decisionali, attacchi di panico ed episodi depressivi.
La paura di non essere all’altezza è una delle forme più frequenti di timore di fronte a scelte importanti. Ciò ha molto a che fare con l’autostima. Ovvero con quanto ci riteniamo capaci di valutare al meglio le cose sostenendo il peso delle decisioni prese e dei loro effetti.
Potremmo definire questa forma di paura come il ”persecutore interno”. Ovvero la voce e i pensieri ricorrenti che minano la fiducia nelle proprie risorse e capacità.
Molti tra coloro che sono in questa condizione spesso ricoprono ruoli di responsabilità, poiché si impegnano molto di più di coloro che non devono dimostrare ogni giorno a se stessi il proprio valore. Per dimostrare a me stesso che valgo, lo dimostro agli altri e al mondo. Ottengo così fiducia, stima, meriti innalzando le aspettative altrui.
Questo conduce all’aumento delle responsabilità da assumere. Più ho successo nel vincere con il mio persecutore interno, più gli offro la possibilità di perseguitarmi. Questo perché le responsabilità e i rischi aumentano in misura delle aspettative che altri hanno verso di me, proprio grazie ai risultati raggiunti. Ed ecco che si ottiene un successo disastroso.
Anche in questo caso le manifestazioni sintomatiche possono variare. Assistiamo ad un’oscillazione tra ansia di fronte alle decisioni, analisi dei fattori di rischio fino alle forme più severe, caratterizzate da dubbi continui, sfiducia nelle proprie risorse che bloccano la presa di decisione, attacchi di panico e stati depressivi.
La paura del giudizio è un’altra delle forme più note che emergono quando dobbiamo prendere delle decisioni e comunicarle agli altri. Il problema, in questo caso, è costituito dal confronto e dai successivi giudizi da parte dei presenti. Spesso questo disturbo è associato alla paura di parlare in pubblico, associata a sua volta dalla paura di arrossire, di sudare e bloccarsi nel parlare. Spesso gli altri vengono percepiti come una minaccia, come nemici pronti a colpire al minimo segno di debolezza.
La paura di esporsi al giudizio viene il più delle volte tenuta nascosta per vergogna e per questo non affrontata. Tuttavia, chi soffre sviluppa frequentemente grandi abilità relazionali e diplomatiche e appare come mediatore e persona capace di gestire al meglio gli altri. Il paradosso è che la debolezza nascosta viene percepita come dote e capacità. Accade non di rado che queste persone fanno carriera, soprattutto all’interno di contesti burocratici dove possono gestire il potere senza esporsi
I sintomi variano dalla forma più lieve con una tendenza ad evitare le situazioni ritenute minacciose o, se non può evitare, con forte ansia anticipatoria e grande stress durante le prestazioni in pubblico, fino a una totale incapacità ad esporsi in pubblico, accompagnata da panico e disturbi psicosomatici.
Essere amati e apprezzati è una necessità primordiale per l’essere umano, ma il bisogno di essere amati da tutti ne è l’espressione disfunzionale.
Le persone che ne soffrono sono costantemente ostaggi del loro volersi sentire apprezzati e amati. Potremmo definire questo copione una sorta di “prostituzione relazionale” così da ingraziarsi il giudizio e ottenerne l’affetto.
È proprio il dover nutrire questa fame di accettazione a rendere molto popolare e apprezzato chi ne è affetto. Egli si mostrerà iperdisponibile, attento ai bisogni altrui e sensibile. Ma anche la più preziosa delle medaglie ha il suo rovescio. Infatti, quando la persona deve prendere una decisione spiacevole, avrà sempre il timore di perdere anche solo in parte la sua popolarità. Per lui sarà sempre un problema scegliere un’opzione che può dispiacere o far irritare qualcuno. Ma, anche in questo caso, paradossalmente è la sua popolarità a far sì che gli altri deleghino le responsabilità che lo inchiodano ad atroci dilemmi. Siccome non può deluderli, sarà costretto ad assecondarne le richieste fino a quando le situazioni lo condurranno al suo limite. Ovvero decidere qualcosa che non lo farà sentire apprezzato.
Anche in questo caso i sintomi oscillano da ansia e costanti dubbi a ricerca continua di consenso, panico, incapacità a decidere.
Ciò che accomuna le varianti della paura di decidere è che essa non dipende dal tipo di decisione, ma da come questa viene percepita dalla persona in base alle caratteristiche personali e del suo agire. Per risolvere il problema la persona andrà guidata a sostituire le modalità fallimentari con cui gestisce le situazioni con altre funzionali. Lo scopo è quello di cambiare, attraverso l’esperienza del successo, le lenti con cui osserva la realtà, imparando a gestirla e non più subirla.
La persona cerca di avere il controllo non solo per il processo decisionale, ma anche delle persone coinvolte, delle circostanze e degli esiti futuri. Questa ricerca di rasssicurazione mediante il controllo si scontrerà ben presto con la consapevolezza che raramente il controllo totale può essere realizzato.
La ricerca di certezza conduce all’incertezza, afferma Buddha. Di fronte all’impossibilità di controllare tutto, la persona invece di accettare l’idea di un rischio inevitabile da ridurre al minimo, ma che comunque è impossibile da realizzare, si sforza di trovare il modo di controllare ogni cosa. Finisce, così, vittima di ragionamenti e tentativi di soluzioni fallimentari sino alla totale perdita di controllo tipica di un disturbo ossessivo.
La persona diviene vittima del dover svolgere azioni ritualizzate che lo rassicurano riguardo alla decisione da prendere. Il fenomeno più frequente è rappresentato da chi, prima di compiere una scelta, ricontrolla ripetutamente il processo e le singole fasi che lo hanno condotto alla decisione, costringendo il soggetto a nuovi controlli, bloccando la capacità di decidere.
In questo caso la compulsione diviene mentale e si esprime nel porsi continuamente dubbi riguardo alla correttezza di una decisione. L’effetto è di rinchiudere la mente in un labirinto di interrogativi, in cui ogni risposta crea un nuovo dubbio. Tutto ciò limita o blocca del tutto la capacità decisionale. Kant scriveva: “non esistono risposte corrette a domande scorrette, prima di pensare una risposta si deve analizzare la correttezza della domanda.”
Il problema si complica quando le possibilità sono numerose e tutte in grado di garantire vantaggi. Ciò instilla il dubbio su quale sia la più vantaggiosa.
Il vantaggio di avere a disposizione numerose opzioni può rendere critica anche una decisione banale. Ad esempio la scelta di un abito, di una vacanza o del ristorante dove portare a cena qualcuno a cui teniamo.
L’aspetto più preoccupante è che l’essere impegnati costantemente ad affrontare decisioni critiche minori distrae e rende meno capaci di riflettere attentamente su quelle maggiori. Si pensi al giovane che, districandosi tra le tante opzioni offerte da una vita agiata, non si sofferma a considerare bene la scelta dell’università. Si accorgerà dell’errore solo quando cambiare significherà aver sprecato tempo prezioso.
Ciò che rende difficile una decisione non é la scelta, ma la consapevolezza dei suoi effetti. Non è dunque complicato cosa scegliere di fare, ma metterla in atto comporterà, insieme ai vantaggi, anche degli effetti indesiderati.
Pensiamo, ad esempio, all’amministratore delegato che è costretto a decidere il licenziamento di un certo numero di dipendenti per salvare l’azienda; oppure a chi è in dubbi io se accettare una promozione che lo costringe all’allontanamento da casa.
Esistono poche situazioni nelle quali assumere una decisione porta solo ad effetti desiderati. Ciò che fa la differenza é il peso di quelli indesiderati. Tuttavia, anche in questo caso, è la percezione della persona a determinare il livello di difficoltà della decisione. Ciò che la rende difficile sono le emozioni che essa attiva.
In questo caso l’obiettivo del lavoro non sarà rendere l’individuo più capace nel compiere analisi, ma di renderlo capace di gestire le proprie reazioni emotive.
Per questo tipo di decisione la difficoltà maggiore risiede nelle capacità logiche ed intellettive piuttosto che nei tormenti emotivi. Ma anche la logica e l’intelligenza hanno le loro trappole.
Il dubbio patologico è la conseguenza diretta del continuare a cercare spiegazioni, analisi che danno la certezza della correttezza della decisione. Ovviamente non solo non si trova la certezza, questo atteggiamento mentale condurrà alla totale irrazionalità. La persona si perderà dentro la propria palude mentale proprio a causa dei passaggi logici per giungere alle scelte corrette.
Può accadere che la persona, anche dopo essere giunto alla decisione, agisca diversamente seguendo le proprie sensazioni piuttosto che l’esito dei propri ragionamenti.
Ad esempio, il caso di colui che decide di avere un chiarimento con il suo capo, ma di fronte a lui non riesce ad aprir bocca; quello del genitore che sa di dover vietare al figlio determinate cose, ma che poi cede alle sue richieste; un partner tradito che decide razionalmente di rompere il rapporto, ma poi non riesce a lasciarla.
Un altro aspetto importante del decidere istintivamente è quello che indica le circostanze in cui l’istinto va coltivato come risorsa. Le performance atletiche esplosive, le azioni militari, le attività di soccorso in condizioni estreme. Tutte situazioni in cui non c’è tempo per riflettere e, pertanto, le decisioni devono essere immediate.
Ci sono situazioni che obbligano a scelte non desiderate o ritenute sbagliate. In questo caso non siamo noi a decidere, ma la circostanza.
Questo tipo di decisione espone più di ogni altra alla reazione di rabbia di fronte all’ingiustizia di dover fare i conti con qualcosa di cui solo in minima parte siamo responsabili. E’ invece il caso, beffardo e crudele, che ci ha costretto ad affrontare; oppure di dover fare le spese di eventi provocati da altri. Di fronte a queste situazioni, si può solo sviluppare la capacità individuale di resistere agli urti e alle ferite della vita.
Il primo passo per restituire alla persona la capacità di decidere efficacemente è addestrarla a superare i limiti che le sue paure le impongono. Altrimenti si formano persone e professionisti competenti e abili, ma incapaci.
Il risultato della gestione vincente della paura è il coraggio, non la sua cancellazione.
Per gestire la paura il primo step consiste sempre nell’accettare la sua inevitabilità, vista come una risorsa e non più come un limite.
Il secondo passo consiste nell’evocare la paura e alimentarla volontariamente per produrre l’effetto paradossale del suo azzeramento. Anziché rifiutare la paura, si gestisce portandola all’esasperazione nelle fantasie. Questo permette di non sentirla più così minacciosa e incontrollabile.
Vediamo come. L’atto volontario di alimentare la paura produce un paradosso psicofisiologico. Se la paura viene alimentata volontariamente, il nostro sistema nervoso riduce drasticamente la sua attivazione, e i parametri fisiologici si resettano a livello di funzionalità; tutto ciò azzera la sensazione di pericolo.
Nella fase iniziale la persona è condotta sperimentare per la prima volta il cosiddetto effetto paradossale. Gli viene prescritto di pensare di proposito per un certo numero di giorni e per 30 minuti al giorno, chiusa in una stanza, i pensieri più minacciosi. Paradossalmente, essi non si presentano, oppure non sono più accompagnati dalla percezione di paura e dalle reazioni concomitanti.
Nella seconda fase la persona dovrà consolidare il meccanismo psicofisiologico “cercando” la paura volontariamente ogni tre ore, dalle 9 alle 21, per cinque minuti esatti senza isolarsi dalle altre attività quotidiane, acquisendo sempre maggiore fiducia in questa tecnica.
Quando la padroneggia, nella terza fase, le si chiede di utilizzarla prima di affrontare situazioni spaventose o “al bisogno”, quando prova paura.
Anche chi teme di decidere dovrà applicare alla paura la “peggiore fantasia”, ovvero calarsi volontariamente nelle realtà più terribili associate ai suoi timori, portandoli fino al punto in cui si azzereranno e mente e corpo si rilasseranno anziché agitarsi.
La maggior parte delle persone a cui viene prescritto il compito della “peggiore fantasia” lo intraprende con una certa perplessità. Ma presto rimane sorpresa dai suoi effetti, toccando con mano l’effetto paradossale. Come San Tommaso, ognuno di noi ha bisogno di “toccare per credere”, ovvero di fare esperienza concreta per convincersi di qualcosa di nuovo e imprevisto. Una volta che la persona avrà sperimentato più volte quest’effetto potrà cominciare ad applicarlo sistematicamente. In questo modo imparerà a gestire i propri timori senza più perderne il controllo.
“La paura evitata si trasforma in timor panico”. Questa antica sentenza conduce al secondo fattore terapeutico e addestrativo contro la paura invalidante, ossia “l’evitare di evitare”.
Evitare dá un iniziale effetto benefico. Successivamente, però, l’esito sarà il devastante non sentirsi in grado di fronteggiare la realtà evitata, fino a rendersi incapaci di fronteggiare altre situazioni pressoché innocue. Per questo motivo si deve pensare che ogni evitamento o fuga condurrà inevitabilmente all’aumento di ciò di cui abbiamo timore, unito alla sfiducia nelle nostre risorse personali. La somma dei due effetti genererà una paura sempre più invasiva e l’incapacità di affrontare le situazioni.
Associando questa ristrutturazione mentale alla tecnica della peggiore fantasia, la persona riesce gradualmente ad affrontare situazioni e condizioni sempre più spaventose, superando la paura e recuperando la fiducia nelle proprie capacità.
Se chiedo aiuto a qualcuno per affrontare una circostanza che dovrei fronteggiare in prima persona, danneggio gravemente la fiducia nelle mie capacità personali.
Come nel caso dell’evitamento, chiedere aiuto costituisce una trappola mentale quando viene attivata in situazioni che si teme di non saper gestire. Il meccanismo è il medesimo: ciò che in un primo momento mi fa sentire protetto e salvo, conferma poi la mia incapacità. Se ripetuta, questa soluzione finisce per aumentare sia la paura, sia la sfiducia in se stessi.
Si deve procedere smontando questo copione disfunzionale applicando la tecnica della “peggiore fantasia”. Ovvero pensando che ogniqualvolta chiediamo aiuto non solo non risolviamo il problema ma addirittura lo consolidiamo peggiorando pericolosamente la situazione.
Il panico è il frutto della ripetizione nel tempo di evitamento, richiesta di aiuto e tentativi fallimentari di controllo della paura non accetta.
Questa tecnica prevede di scrivere al mattino tutti gli esiti più terribili e temuti scrivendoli e descrivendoli in dettaglio per poi lasciare che la giornata passi. La sera si verifica se le previsioni catastrofiche si sono realizzate.
L’esercizio di scrivere in dettaglio tutte le proprie aspettative angoscianti fa sì che il soggetto sviluppi una progressivo distacco emotivo, proprio perché ne accetta l’inesorabilità. La descrizione le rende quasi accettabili e desensibilizza progressivamente all’angoscia.
Infine, verificare alla sera cosa si è realizzato delle previsioni è un modo per smontare il meccanismo del pensiero catastrofico. Anche nel caso in cui gli eventi previsti si dovessero concretizzare, questa procedura li rende più accettabili e gestibili.
L’atto dello scrivere, come dimostrano numerose ricerche, ha la proprietà di calarci totalmente in ciò che descriviamo ma, al tempo stesso, ci permette di distaccarcene. Ripetere questo esercizio quotidianamente dà la capacità di accettare anche l’inaccettabile ma, soprattutto, riduce gli angoscianti controlli mentali di cui siamo grandi artefici.
Lo stesso vale anche quando nutriamo risentimento o ostilità nei confronti di qualcuno. Se ci impegnamo a scrivere ogni giorno le accuse e insulti che vorremmo, ma non possiamo rivolgergli, dopo un po’ la nostra rabbia si attenua. La persona detestata ci sembra più accettabile. Alla fine potrebbe quasi tenerezza. Emil Cioran scrive: “grazie a questo espediente sono riuscito a convivere con me stesso”.
Questa tecnica prevede di analizzare la correttezza della domanda piuttosto che ricercare risposte.
Questo significa bloccare lo slancio della ragione a voler trovare la risposta giusta anche di fronte a domande sbagliate. Per riuscirci, ancora una volta, la paura va trasformata in una risorsa. Si deve cioè creare la paura di rispondere a dubbi patologici per evitare di rimanervi intrappolati.
Se la persona applica questo stratagemma per qualche settimana, il tarlo mentale viene eliminato e il dubbio tiranno si risolve. A un problema basato su un eccesso di razionalità si applica un virtuosismo razionale in grado di ricondurre la mente alla sana ragionevolezza.
In caso di pensieri o immagini intrusive che minano la serenità della persona durante i processi decisionali vale la regola “più cerchi di scacciarli più rimarranno nella tua mente”. Pertanto, lo stratagemma consiste nel dare ai pensieri e alle immagini che ci ossessionano uno spazio e un tempo affinché la mente li rifiuti spontaneamente.
In pratica, lungo l’arco della giornata si devono richiamare alla mente, per cinque minuti ogni ora, i pensieri e le immagini indesiderati. Questa vera e propria tortura volontar ia scatena una reazione avversiva naturale. La mente, in questo modo, rifiuterà tali pensieri e immagini, disinnescando il meccanismo ossessivo. Infine, quando il disagio si esprime nel ricontrollare compulsivamente tutte le fasi del processo decisionale prima di attivare la decisione, si deve applicare un altro stratagemma. Ogni volta che proviamo l’impulso di ricontrollare, dobbiamo farlo 10 volte, né una volta di più, né una volta di meno.
Prescriversi un numero preciso di ripetizioni non ha lo scopo di generare fatica e rifiuto, ma di minare il potere dell’ossessione del controllo. La percezione della necessità del ricontrollo viene così completamente ribaltata: se decido quante volte farlo, posso anche decidere di non farlo.
Ma cosa ci rende capaci di decidere superando i propri limiti emotivi, cognitivi e comportamentali? L’inclinazione naturale degli esseri umani ad autoingannarsi nel percepire la realtà.
Si tratta di uno degli argomenti più discussi per gli studiosi stessi. Tuttavia, è proprio la ricerca più avanzata delle neuroscienze a mostrare come l’autoinganno sia un processo mentale inevitabile.
L’essere umano preferisce scegliere ciò che gli è più comodo rispetto a ciò che migliore. Questo significa che nel selezionare le opzioni noi vendiamo naturalmente a evitare quelle scomode, dolorose, minacciose e faticose. Per preservare il nostro stato di apparente equilibrio evitiamo di considerare valido tutto ciò che potrebbe sconvolgerlo.
L’aspetto più sorprendente per i non esperti è che tutto questo avviene, nella maggioranza dei casi, inconsapevolmente.
Per evitare di essere messo di fronte a una decisione dolorosa, ad esempio, non noto i segnali, evidenti a chiunque altro, che indicano il tradimento da parte del mio partner. Tra due offerte di lavoro escludo quella più vantaggiosa perché temo di dovermi confrontare a un livello più alto. “Me la racconto” sopravvalutando i vantaggi di una opzione meno “espositiva”; o ancora, decido di dare un importante chance a una persona a me vicina, trovandole delle qualità che non ha, invece di offrirla a chi la meriterebbe davvero.
La via d’uscita non può essere, come vorrebbero molti, l’estinzione degli autoinganni, semplicemente perché questo è impossibile. Dunque si tratta, come per le paure, di imparare a gestirli trasformandoli da limiti in risorse.
A questo scopo è fondamentale imparare a dialogare con noi stessi. Un esempio di tale dialogo con
noi stessi può rendere più chiare le operazioni da eseguire prima di prendere frettolosamente la decisione che ci sembra la migliore.
Immaginiamo di fare una sorpresa al nostro partner, presentandoci a casa prima del solito, senza avvertire, con un bel regalo. Cosa faremmo se, entrando in casa, avessimo sentito dei gemiti provenire dalla camera da letto e avessimo trovato il nostro partner nel bel mezzo di un travolgente amplesso con uno sconosciuto?
Probabilmente le prime risposte saranno emotive e istintuali: Potremmo aggredire entrambi, potremmo chiudere la porta e andarcene, potremmo pretendere spiegazioni. Ma queste sono le reazioni previste a caldo, non la risposta da trovare come esercitazione sul dialogo con noi stessi.
Proviamo a chiederci cosa avremmo deciso di fare della nostra relazione di coppia dopo quella scoperta sconcertante. Potremmo pensare di dare un’altra chance alla relazione oppure potremmo troncarla. Proviamo ad analizzare quali sono le domande da porsi per arrivare a una risposta non influenzata da reazioni immediate o dal risentimento e dal dolore.
La domanda essenziale è: per decidere se stare o no con lei, dovrei sapere se sono in grado di fare a meno di lei. Se sono in grado di fare a meno della mia compagna sono libero di scegliere; ma se non sono capace di rinunciare a lei, la scelta è obbligata: dovrò ingoiare il rospo!
Una volta giunti a chiarire con se stessi se si è in grado o meno di fare a meno di lei, si aprono due scenari completamente differenti a cui applicare autoinganni strategici. Si tratta di ingiunzioni volontarie che rivolgiamo a noi stessi per superare le sofferenze provocate da ciò che abbiamo subito.
Nel caso in cui posso fare a meno di lei, potrei chiedermi: “cosa farei da ora in poi “come se” volessi liberarmi di lei?”. Mi proiett nello scenario ipotetico, immaginando in dettaglio l’agire quotidiano. Dopo di che potrò mettere in atto ciò che ho immaginato.
Nel caso in cui non posso fare a meno di lei, potrei chiedermi: “cosa farei da ora in avanti “come se” fossi in grado di dimenticare ciò che è accaduto o perdonarla perciò che mi ha fatto?“. Quindi considerer tutti i dettagli dello scenario immaginato per poi metterlo in pratica.
Come suggerisce Blaise Pascale a coloro che non hanno fede: “andate in chiesa, pregate e onorate i sacramenti, comportatevi come se già credeste, la fede non tarderà ad arrivare”.
Oltre 25 anni di ricerca e applicazione sui disturbi compulsivi hanno dimostrato non solo l’efficacia della terapia breve strategica, ma hanno anche permesso di considerarli come la Best Practice nel campo della terapia di questa forma invalidante di disturbi psichici e comportamentali.
Bibliografia
Nardone G.(2014) La paura di decidere. Milano. Ponte alle Grazie
Nardone G. (2014) L’arte di mentire a se stessi e agli altri. Milano. Ponte alle Grazie
Nardone G. (2013) Psicotrappole. Ovvero la sofferenza che ci costruiamo da soli: imparare a riconoscerle e a combatterle. Milano. Ponte alle Grazie